Teatro

Teatro (Calle e Ramo, Corte del) a S. Luca. Il teatro di S. Luca, o, come anticamente dicevasi, di S. Salvatore, credesi eretto intorno al 1622, ed apparteneva ai patrizii Vendramin. Dopo un incendio venne rifabbricato nel 1661, e vi si cantarono opere in musica, la prima delle quali fu la Pasifae, ovvero l’Impossibile fatto Possibile, poesia dell’Artale, musica del Castrovillari. Altro incendio patì nel 1740, risorgendo però nell’anno medesimo sopra disegno di Pietro Chezia. Ebbe in seguito altri ristauri che lo resero più armonico e gajo. Si disse anche Teatro Apollo, e nel 1875 prese il nome di Goldoni in onore del commediografo insigne.

Merita uno sguardo quella testina di marmo, rappresentante una donna in vecchia età, che, unitamente agli stemmi dei Bembo e dei Moro fra essi congiunti, nonché allo stemma della Confraternita di S. Rocco, scorgesi sopra una muraglia in Corte del Teatro a S. Luca. Se il bujo dei tempi non ci permette di sapere chi raffiguri quella testa, possiamo dedurre che essa fosse fatta collocare ove esiste dalla famiglia Querini. Infatti i Querini anche nel secolo XIV possedevano varii stabili contermini a quello di cui si parla, e quando esso nel 1387, 8 novembre, fu dato in possesso dai Giudici dell’Esaminador a donna Chiara di ser Dionisio de Rebusatis, merciajo a S. Salvatore, non si omise di dire nel relativo istrumento, rogato dal notajo pre’ Bartolammeo dei Ricovrati, esservi sopra il muro una testa d. petra a d.na que debet removeri q.m placuerit d.no Bertucio Querino. Ciò si ripete nell’altro istrumento 25 giugno 1388, col quale Cattaruzza, moglie di Nicolò Paruta da S. Croce, di consenso del proprio marito, alienò a Lucia da Lago relit. del nob. Nicolò Dandolo, lo stabile medesimo. Esso nel secolo XVI era dei Bembo, e da Domenico Bembo q. Tommaso venne lasciato, con altre facoltà, nel 1545 alla sorella Lucia, vedova d’Antonio Moro, che, morendo il 1° marzo 1546, lasciavalo ai figli Giacomo, Tommaso e Nicolò Moro, dall’ultimo dei quali, rimasto superstite ai fratelli, passava in commissaria per virtù del testamento 9 marzo 1552, e codicillo 17 maggio successivo (atti d’Antonio Marsilio), all’arciconfraternita di S. Rocco. Non è improbabile poi aver avuto origine dalla testina l’insegna della Vecchia, che porta da secoli la farmacia in Campo S. Luca, perché il casamento ove è situata arriva fino alla Corte del Teatro e per di dietro ha un uscio sottoposto precisamente alla testina.

Senonché, a titolo di curiosità, qui riporteremo un’altra origine dell’anzidetta insegna, che si legge nel volume IV dei Commemoriali manoscritti del N. U. Pietro Gradenigo da S. Giustina: Una vecchia donna, della parrocchia di S. Paterniano, di avaro temperamento, tutto ciò che ricavava dal suo lavoro, o altra industria, nascondeva e cuciva fra le fodere di un vecchio ed inutile tabarro, il quale fra le straccie teneva nella parte più dimenticata della soffitta della propria casa, così celando al suo discolo, quanto pietoso figliuolo, tanto danaro. Un giorno nella più rigida stagione d’inverno, mosso egli da fervida compassione d’un ignoto e nudo povero interricito sulla strada dal freddo, si risolse di donare a lui il tabarro stesso, credendo non aver bisogno d’implorarne permissione alla madre per mantello sì stracciato. La settimana seguente, occorrendo alla genitrice d’aumentare il suo deposito, e non ritrovatolo per diligenza usata, interrogò finalmente il figlio se ne sapeva dar nuova, che da essa sentita fatale per la difficoltà di ricuperarlo, gli palesò per ultimo quanto oro vi era cucito onde lasciarlo in tempo di sua morte in di lui eredità. Penetrato il Giovine da tale impensata informazione, si diede tutto all’impegno di rintracciare il Mendico, ma non sortiva nell’intento. Si risolse allora di vestirsi a modo d’uno stolto inginocchiato ai scalini del Ponte di Rialto, cioè dove ogni momento concorre l’affluenza degli uomini che girano per la città, e rivolgendo un naspo adagio, adagio, secondando anche la mano con il flebile canto, che replicava a modo d’invitare li passeggeri a compatire qualche suo sfortunato destino, mai tralasciò la mentita comparsa se non diede l’occhio sopra il Povero, che cercava, quale appena veduto con lieto animo lo chiamò a sè, dimostrando compassione che in stagion sì aspra se ne stesse tanto malamente riparato. Poi gli disse: Fratello! io rimango per te sì penetrato che penso di cambiar teco il mio tabarro, tanto più che saprò con questo mezzo come meglio provvedere a me stesso.

Non fu difficile ad acconsentire il bisognoso forastiero, sorpreso dalla umanità del pio Veneziano, e ringraziatolo con mille benedizioni, prese il dono, e se ne andò con la buona ventura. Allora, senza perder tempo, lasciato il naspo, di buon passo il figlio ritornò alla madre, e con promiscuo piacere repristinarono a lor prò l’opulente borsa. Così continua il misterioso simbolo a rammentare il fatto, stante che, col mezzo del soldo, si fondò florido negozio di accreditata farmacia, contraddistinta da un significante intaglio, che rappresenta la Vecchia sedente con la Rocca ed il Fuso, a cui piedi sta il fanciullo, contorcendo il filo col mezzo d’un Naspo.

Il Fanciullo stesso si chiamava Vincenzo Quadrio, e fu primo spicier all’insegna della Vecchia.

Lasciando da parte quanto vi può essere d’inverosimile e di favoloso in questo racconto, egli è certo che il protagonista del medesimo viveva in Venezia nel secolo XVI, poiché, scorrendo alcuni testamenti del nostro Archivio, trovammo quello di Ambrogio q. Antonio Maria di Vincenti, nella parrocchia di S. Luca, ove figura, come uno dei commissarii, Vincenzo Quadrio spicier all’insegna della Vecchia.

E’ debito poi di contare che, se da principio, come vuole il Gradenigo, scorgevasi nell’insegna la Vecchia filante, col fanciullo ai piedi contorcente il filo ad un naspo, vi rimase, col progresso del tempo, la Vecchia soltanto, alla quale nel nostro secolo s’aggiunse il Cedro Imperiale, insegna d’altra farmacia, allora soppressa, e con quella della Vecchia concentrata.

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