Celsi (Calle, Corte) a S. Ternita. Il leggersi che la famiglia Celsi, insieme alla famiglia Sagredo, costrusse nell’undicesimo secolo la prossima chiesa di S. Ternita fa supporre ch’essa abitasse in questa contrada fino da remoti tempi. Tale supposizione poi si converte in certezza quando si considera che Nicolò Celsi, eletto nel 1269 Procuratore di S. Marco, era da S. Ternita. Circa gli stabili che i Celsi possedevano a S. Ternita, il Cicogna, nelle sue illustrazioni alla chiesa della Celestia, riporta il seguente brano manoscritto dell’ingegnere Casoni: Un documento 1565, 20 marzo, ed è una scrittura di Vincenzo Morosini, Giacomo Soranzo, e Paolo Tiepolo, cavalieri e procuratori, estesa in esecuzione della Parte dell’Ecc. Cons. di X et Zonta 20 Novembre 1564, che tratta sul progetto di isolare l’Arsenale, porge sicuro indizio per istabilire che l’odierno palazzo di Ca’ Donà, situato a S. Ternita, al Rivo di questo nome, era in allora case dei Celsi, e case dei Celsi erano i contigui locali fino all’odierno Rivo detto delle Gorne, anzi un piccolo vacuo di strada in quella località, fra il palazzo Donà e quello dei Pitteri ed altre case, conserva tuttora il nome di Corte di Ca’ Celsi. Anche nel 1740 la famiglia Celsi notificò ai X Savii di possedere una casa da statio in contrà di S. Ternita, nonché altre contigue in detta contrà, e precisamente in Corte de Ca’ Celsi. Questa famiglia da Roma si trasferì a Ravenna, e di là a Venezia, ove godette della podestà tribunizia.
Un Lorenzo Celsi venne fatto doge nel 1361, e sotto di lui i Veneziani ricuperarono Candia. Il Petrarca, che ne era molto intrinseco, così nelle Senili ebbe ad esprimersi: Dux Laurentius vere Celsus vir, nisi me forsitan amor fallit, et magnitudine animi, et sanctitate morum, et virtutum studio; super omnia, singulari pietate, atque amore patriae memorandus. Raccontasi che appena Lorenzo salì al soglio ducale, Marco suo padre si mise a girare per la città senza berretto, o cappuccio, acciocché non dovesse levarselo quando passar doveva innanzi il figliuolo, che riputava, per ragione di natura, di sé minore. Il doge, per togliere la debolezza del vecchio, fece porre una croce sopra il proprio berretto ducale. Allora Marco, vedendo il doge, scoprivasi dicendo Saluto la croce, e non mio figlio che deve essermi inferiore. D’un Giacomo Celsi così parla il Cod. 183, Classe VII della Marciana; Giacomo Celsi q. Giacomo fu huomo prepotente, insolente, et teneva la contrada di S. Ternita sempre inquieta. Hebbe travagli di giustitia per questo. Arrivò a segno che, havendo tolto la donna e facoltà a s. Alvise Barbaro q. s. … Jacomo, e lui de disperation havendolo ferito in piazza con una coltellata sul collo, fu ripreso il proceder del Celsi, e non del Barbaro, e condannato il Celsi. E questo Celsi anco fece trucidare un povero sartor perché voleva il suo, onde fu bandito, ma avanti la sua morte si liberò. E non fu più considerato niente, abbenché fosse stato in armata. Probabilmente quegli di cui si tratta è quel Giacomo, nato nel 1643 da Giacomo Celsi e da Andriana Boldù, il quale dimostrò il proprio valore combattendo i Turchi, e nel 1690 fu uno degli ambasciatori destinati ad incontrare il doge Francesco Morosini reduce in patria. Il ramo patrizio dei Celsi si estinse nel 1789 in un Francesco Maria q. Angelo q. Lorenzo, il quale lasciò una sorella da lui per forza chiusa nel convento del Sepolcro, ove giammai volle farsi monaca, e donde uscì alla morte del fratello.
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Nella vicinanza
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